giovedì 29 marzo 2012

Krishnamurti: Il Bisogno di Sicurezza


Il piccolo ruscello scorreva molto dolcemente vicino al sentie­ro che serpeggiava tutt’intorno alle risaie, pieno di fiori di loto di un viola scuro e dai cuori dorati, che galleggiavano sull’ac­qua. Il profumo restava accanto a essi ed erano molto belli. Il cielo era coperto: stava cominciando a piovigginare e fra le nubi tuonava. Il fulmine era ancora lontano, ma si stava avvi­cinando all’albero sotto cui ci riparavamo. Cominciò a piovere forte e le gocce d’acqua si accumulavano sulle foglie di loto. Quando si fecero troppo grandi scivolarono dalle foglie, solamente per formarsi un’altra volta. Il fulmine adesso era sopra l’albero e il bestiame spaventato tirava le funi. Un vi­tello nero, fradicio e tremante, si lamentava pietosamente; strappò la sua corda e corse verso una capanna lì vicino. I fio­ri di loto si chiudevano saldamente, serrando i loro cuori dorati contro l’oscurità crescente; per raggiungerli uno avrebbe dovuto strappare i petali viola. 

Sarebbero rimasti saldamente chiusi sino all’arrivo del sole. Erano molto belli anche nel loro sonno. Il lampo si muoveva verso la città. Era veramente buio ora, e a stento si poteva udire il mormorio del ruscello. Il sen­tiero ci portò oltre il villaggio, alla strada che ci ricondusse alla città chiassosa.

Era un giovane di oltre vent’anni; era ben nutrito, aveva viag­giato un po’ e aveva studiato all’università. Era nervoso e nei suoi occhi c’era inquietudine. Era tardi, ma voleva parlare; voleva che qualcuno esaminasse la sua mente per lui. Si espose con molta semplicità, senza esitazione o pretesa alcuna. Il suo problema era chiaro, ma non a lui, che brancolava qua e là.

Non ascoltiamo e non scopriamo «ciò che è». Affibbiamo le nostre idee e opinioni a un altro, cercando di imporgli la struttura del nostro pensiero. I nostri pensieri e i nostri giudizi sono per noi molto più importanti che scoprire «ciò che è». Il «ciò che è» è sempre semplice. Siamo noi a essere complicati. Rendiamo il semplice, il «ciò che è», complicato e ci perdiamo in esso. Ascoltiamo unicamente il chiasso crescente della nostra confusione. Per ascoltare dobbiamo essere liberi. Non è che non debbano esserci distrazioni, dato che lo stesso pensare è una forma di distrazione. Dobbiamo essere liberi per stare in silenzio, e solo allora è possibile ascoltare.

Diceva che appena andava a dormire gli accadeva di mettersi a sedere sul letto con un attacco di ansia pura. In quei momenti la stanza perdeva le sue proporzioni; i muri si appiattivano; soffitto e pavimento sparivano. Ed egli, in preda alla paura, sudava. La cosa andava avanti da parecchi anni.

Di che cosa ha paura?

«Non lo so; ma quando mi sveglio spaventato, vado da mia sorella, o da mio padre e mia madre e, per calmarmi, parliamo un po’; poi vado a letto. Loro capiscono, ma io ho passato la ventina e tutto questo sta diventando piuttosto stupido».

È preoccupato per il futuro?

«Sì, un po’. Benché il denaro non ci manchi, mi preoccupa lo stesso».

Perché?

«Voglio sposarmi e provvedere al benessere della mia futura moglie».

Perché preoccuparsi per il futuro? Lei è veramente giovane: può lavorare e darle il necessario. Perché farsi assillare così da ciò? Teme di perdere la sua posizione sociale?

«In parte. Abbiamo una macchina, qualche proprietà e un nome. Ovviamente non voglio perdere tutto questo, il che po­trebbe essere la causa della mia ansia. Ma non è esattamente così. È la paura di non essere. Quando mi sveglio spaventato, provo la sensazione di essere perduto, di non essere nessuno, di crollare».

Dopo tutto, può darsi che un nuovo governo vada al potere e che lei perda le sue proprietà, i suoi beni. Ma è veramente gio­vane e può sempre lavorare. Milioni di persone stanno per­dendo i loro beni materiali e anche a lei può capitare di dover affrontare una cosa simile. E poi le cose del mondo vanno condivise e non possedute esclusivamente. Perché essere così prudente, così timoroso di perdere, alla sua età?

«Ecco, voglio sposare una ragazza e desidero che non ci sia al­cun ostacolo. È probabile che nulla lo impedisca, ma sento la sua mancanza e lei la mia; ciò può essere un’altra causa del mio timore».

È questa la causa della sua paura? Sostiene che è probabile che non accada nulla di eccezionale che possa impedirle di sposarla e, allora, perché questa paura?

«Sì, è vero; possiamo sposarci quando decidiamo di farlo, quindi questo non può essere il motivo del mio timore, almeno non adesso. In effetti, penso di aver paura di non essere, di perdere la mia identità, il mio nome».

Anche se non tenesse al suo nome e avesse, però, le sue pro­prietà e il resto, non avrebbe, forse, ancora paura? Che cosa intendiamo per identità? Essere identificati con un nome, con delle proprietà, con una persona, con delle idee; essere associati a qualcosa; essere riconosciuti come questo o quello; essere eti­chettati come appartenenti a un gruppo o a una nazione parti­colari, e così via. Lei teme di perdere la sua etichetta. E così?

«Sì, perché altrimenti che cosa sarei? Sì, è così».

Dunque lei è ciò che possiede: il suo nome, la sua reputazione, la sua macchina, le altre proprietà, la ragazza che sposerà, le ambizioni che ha. Lei è queste cose, le quali, insieme a certe caratteristiche e a certi valori, vanno a formare quello che lei chiama «Io». Lei è la somma di tutto ciò e teme di perderlo. Come per tutti gli altri, c’è sempre la possibilità di perdita: può scoppiare una guerra; ci può essere una rivoluzione o un cambio di governo verso la Sinistra. Può accadere qualcosa che la privi di tutto ciò, adesso o domani. Ma perché temere l’insicurezza? Non è, forse, la natura propria di tutte le cose? Contro questa insicurezza sta costruendo dei muri che la proteggeranno, ma questi muri possono essere e vengono di fatto abbattuti. Può sfuggirlo per un momento, ma il pericolo dell’insicurezza è sempre là. Non può evitare ciò che è. L’insi­curezza è là, che le piaccia o no. Ciò non significa che deve rassegnarsi a essa, che deve accettarla o respingerla; ma lei è gio­vane e perché temere l’insicurezza?

«Adesso che ha messo la cosa in questo modo non credo di temere l’insicurezza. Sono veramente disposto a lavorare. Lavo­ro più di otto ore al giorno e, quantunque non mi piaccia par­ticolarmente, posso continuare. No, non ho paura di perdere proprietà, macchina e il resto, e la mia fidanzata e io possiamo sposarci quando vogliamo. Mi rendo conto, ora, che non è nulla di tutto ciò a spaventarmi. Allora che cos’è?»

Scopriamolo insieme. Potrei essere in grado di rivelarglielo, ma non sarebbe una sua scoperta. Si situerebbe solo a un livel­lo verbale e sarebbe, pertanto, del tutto inutile. Scoprirlo sarà per lei sperimentarlo ed è questo che veramente conta. Scoprire è sperimentare. Lo scopriremo insieme.

Se non ha paura di perdere nessuna di queste cose, se non teme l’insicurezza esteriore, allora che cosa la preoccupa? Non risponda subito; ascolti soltanto; sia attento a scoprire.
È del tutto sicuro di non aver paura dell’insicurezza fisica? Nella mi­sura in cui si può essere sicuri di cose simili, lei sostiene di non averne paura. Se è certo che questa non sia una mera afferma­zione verbale, allora di che cosa ha paura?

«Sono del tutto certo di non temere d’essere insicuro fisicamente. Possiamo sposarci e avere ciò di cui abbiamo bisogno. È qualcosa di più della semplice perdita delle cose ciò che io temo. Ma che cos’è?»

Lo scopriremo, ma riflettiamoci con calma. Vuole davvero scoprirlo, non è così?

«Naturalmente. Soprattutto adesso che siamo giunti fin qui. Che cos’è quello di cui ho paura?»

Per scoprire dobbiamo essere calmi, attenti, ma non pressanti. Se non è spaventato dall’insicurezza fisica, teme, forse, di essere insicuro interiormente, d’essere incapace di conseguire lo scopo che si è prefisso? Non risponda; ascolti soltanto. Si sen­te incapace di diventare qualcuno? Probabilmente ha un ideale religioso; avverte, forse, la sensazione di non avere la capa­cità di vivere conformemente a esso o di raggiungerlo? Prova un senso di disperazione al riguardo, un senso di colpa o di frustrazione?

«Ha perfettamente ragione. Fin da quando l’ascoltai alcuni an­ni fa, da ragazzo, il mio ideale è stato, se posso dirlo, assomi­gliarle. Essere religiosi è nel nostro sangue e mi ero sentito in grado d’esser tale. Ma c’è sempre stato il timore profondo di non riuscire ad avvicinarmi mai a ciò».

Andiamo adagio. Sebbene non tema d’essere insicuro esterior­mente, ha paura d’esserlo interiormente. Un altro si rende sicuro esteriormente con una reputazione, con la fama, con il denaro, e così via; mentre lei vuole essere sicuro interiormente con un ideale e sente di non avere la capacità di diventare quell’ideale. Perché vuole diventare o raggiungere un ideale? Non è forse soltanto per essere sicuro, per sentirsi in salvo? Questo rifugio lei lo chiama l’ideale. Ma in realtà vuole essere sicuro, protetto. È così?

«Ora che me lo fa notare, è proprio così».

Adesso lo ha scoperto, non è vero? Ma andiamo oltre. Lei si rende conto dell’ovvia futilità della sicurezza esteriore, ma vede anche la falsità del ricercare la sicurezza interiore diventan­do l’ideale? Al posto del denaro il suo rifugio è l’ideale. Se ne rende veramente conto?

«Sì, davvero».

Allora sia ciò che è. Quando ne comprende la falsità, l’ideale scompare. Lei è «ciò che è». Quindi proceda a comprendere «ciò che è» – ma non con uno scopo particolare, perché lo scopo, il fine è sempre lontano da «ciò che è». Il «ciò che è» è lei stesso; non in un periodo particolare o in un dato stato d’animo, ma come lei è di momento in momento. Non si condanni o si rassegni a quello che vede, ma sia attento, senza in­terpretare il movimento di «ciò che è». Sarà difficile, ma in ciò c’è gioia. La felicità c’è solo per chi è libero, e la libertà giunge con la verità di «ciò che è».

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